Abbazia di San Domenico Abate

Edificio di culto

  • Sora (FR)
  • Abbazia di San Domenico Abate - Sora
  • Abbazia di San Domenico Abate - Cripta - Sora
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Presentazione

Le origini dell’abbazia sono state tramandate dai primi biografi del suo fondatore, l’abate benedettino Domenico di Foligno, proclamato santo e titolare della chiesa per acclamazione popolare da papa Pasquale II nel 11041.
I testi narrano un edificante episodio, secondo il quale Pietro di Rainerio, gastaldo di Sora, conoscendo la santità di Domenico, volle incontrarlo per confessargli i suoi peccati e farne ammenda. Convinto del pentimento dell’uomo, Domenico gli accordò il perdono pretendendo, però, ad ulteriore espiazione delle sue mancanze, la costruzione di un cenobio benedettino nel territorio sorano. Pietro acconsentì e donò al monaco il terreno che questi ritenne favorevole alla nuova costruzione, situato nel punto di confluenza del fiume Fibreno con il Liri, in località Inter formas (”Tra le forme”). Fu lo stesso Domenico a guidare il monastero sorano e questi acconsentì restandovi per venti anni, fino alla morte, avvenuta nel 1031.
Circa il periodo di fondazione della badia, taciuto dalle fonti, sussistono, invece, ancora molti dubbi. Due ipotesi, in particolare, hanno diviso gli storici: una datazione al 1030, sostenuta da Cesare Baronio negli ”Annales” sulla base del succitato strumento di donazione, e l’anno 1011.
La chiesa ha un impianto basilicale a tre navate, terminanti ciascuna con abside, e presenta un presbiterio rialzato sulla cripta, al quale si accede mediante un’ampia scala centrale. L’interno riceve luce da finestre ad ogiva aperte in corrispondenza della navata centrale. Le tre absidi, alleggerite da monofore, sono decorate esternamente con archetti pensili poggianti su peducci. La cripta ha volte a crociera sostenute da sedici colonnine realizzate con elementi di spoglio, e quindi di ordine e materiale diversi, ed è illuminata da finestrelle ad arco aperte sulle absidi.
Nella costruzione della chiesa furono impiegati materiali di epoca romana provenienti da monumenti funerari esistenti nella zona. Alcuni storici hanno voluto individuare nel luogo in cui sorge il complesso monastico il sito della villa natale di Marco Tullio Cicerone in base alla descrizione che lo stesso oratore dà del proprio luogo natale nel secondo libro del De Legibus. La questione, trattata da molti storici, è ormai secolare – lo stesso Cesare Baronio vi allude senza tuttavia dare conclusioni certe – e continua ad essere controversa.
Ciò che oggi vediamo della chiesa è il risultato dei lavori del secolo scorso che hanno tentato di riportare l’edificio alla struttura originaria in stile gotico-lombardo.
Già all’epoca dell’affiliazione con l’abbazia di Casamari, i cistercensi potrebbero aver costruito un portico, a cui apparterrebbe il pilastro sistemato sul sagrato della chiesa, ma almeno fino agli inizi del XVIII secolo la chiesa dovette conservare il suo antico aspetto, a giudicare dalla descrizione che ne fa Filippo Rondinini nel 1707 e dalla piantina che la correda. La chiesa a quell’epoca appariva ancora semplice, spoglia, priva di altari laterali e di pitture, fatta eccezione per l’affresco absidale realizzato su commissione del cardinale commendatario Scipione Borghese. Dalla piantina si deduce che la chiesa aveva un unico ingresso sulla facciata.
Fu a partire della metà del XIX secolo che le modifiche divennero avventate al punto da snaturare quasi completamente l’edificio.
Nel 1842 l’architetto Luigi De Medicis elaborò per l’abate Macario Baldelli un progetto che mirava a dare slancio alla chiesa con l’allungamento dei pilastri e la realizzazione di volte in stile gotico, mentre la scala di accesso al presbiterio sarebbe stata sostituita da due rampe nelle navate laterali. Quanto fu effettivamente realizzato in quell’occasione non è documentato con precisione, ma sappiamo che da quel momento in poi, soprattutto durante il priorato di Bonifacio Castaldi, fu un susseguirsi di architetti, progetti ed interventi azzardati, confusi, non completati o vanificati da ripensamenti successivi, che quasi mai rispettavano le caratteristiche dell’antica struttura, e pertanto furono spesso oggetto di contrasti con l’opinione pubblica, gli addetti ai mestieri e le istituzioni competenti.
Due immagini precedenti al terremoto del 1915 mostrano l’interno della chiesa e la facciata dopo i restauri voluti dal Castaldi: l’interno presentava volte in stile gotico, decori in stucco e due rampe curvilinee in sostituzione della scala centrale che racchiudevano l’ingresso della cripta; nel catino absidale un nuovo affresco, verosimilmente coevo, copriva quello citato dal Rondinini. La facciata era costituita da un tozzo rettangolo scandito da quattro lesene e sormontato solo nella parte centrale da una sorta di timpano curvilineo. Ai lati del rosone si trovavano motivi circolari entro cuspidi, che forse in precedenza costituivano delle aperture.
Dopo il terremoto la Soprintendenza ai Monumenti di Napoli decise con determinazione come ovviare ai danni, non solo provocati dalla calamità naturale, ma anche dall’incompetenza di chi aveva voluto i precedenti rifacimenti. Si realizzò la copertura con capriate a vista, fu eliminato quanto era stato aggiunto di posticcio e si spostarono le scalinate del presbiterio nelle navate laterali. Le pareti ed i pilastri furono decorati con finto travertino e si riportò alla luce l’affresco secentesco raffigurante la Madonna assunta tra gli angeli. Dopo un altro lungo ciclo di restauri la chiesa è stata riaperta nel 1994 con l’interno nuovamente modificato, ma più vicino alla struttura originaria. Tolta la decorazione in travertino e ricostruita la scala centrale del presbiterio finalmente la chiesa è tornata ad essere quell’organismo compiuto e misurato, dall’aspetto semplice e austero, che il sentimento artistico e religioso dell’XI secolo ispirò ai suoi costruttori.

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